Il caso di Harvey Weinstein, il potente produttore cinematografico statunitense accusato, nei giorni scorsi, di molestie e violenze sessuali su molte attrici, sta avendo una risonanza fortissima, mediaticamente parlando, rimbalzando di sito in sito, da oltre Oceano, di social in social, dove ha aperto l’ennesimo dibattito sproloquiante tra vittima/carnefice e un profondo buco nero sul cancro sociale che sta diventando la violenza sulle donne.
Questa settimana ha fatto molto clamore online il caso Weinstein che ha dato l’input a tutti i moralisti che si sono sentiti in dovere di commentare il fatto con quella sicurezza che è un’ennesima forma di violenza, velata, mascherata, ma pungente e denigrante in ugual modo.
Dal caso Weinstein è emerso che la denuncia di violenza ha la data di scadenza, diversamente è un mix di piacere, arrivismo e attività legittima per chi porta un nome famoso.
E’ uscita una lista della spesa che tra il “conosco” e “ah sì quella del film…” ha messo in piazza carne da macello femminile (famosa) che ha fatto passare in 2° piano il concetto di vittima di violenza da parte di un uomo che ha abusato fisicamente di loro (o ha tentato) e ha abusato del suo potere professionale per rendere queste donne merce pronta da usare a piacimento. Tra i nomi della lista è comparso anche quello di Asia Argento, che ha scatenato il popolo della rete, che non ha semplicemente capito la situazione da lei subita. No, il grave danno non è aver subito la violenza, è che Asia poi è rimasta con lui in una relazione consenziente ed ha denunciato il fatto solo ora, dopo 20 anni dall’accaduto.
La vittima rimane sempre una vittima, senza nome, senza tempo, con un carico di vergogna e di inadeguatezza che ti spinge in fondo la voglia di riprovare a vivere. Chi subisce una violenza di questo tempo viene lesionata nel corpo e nella voglia di essere donna. Serve comprensione, non ho detto compassione e orecchie accoglienti per ascoltare, braccia larghe per accogliere confessioni che hanno la pesantezza di non essere più sopportate in solitaria. Avrei voluto leggere il silenzio dei commentatori seriali, quelli che hanno le dita che corrono veloci sulle tastiere dei loro pc, ma hanno i neuroni lenti per non capire ciò che è giusto fare. Avrei voluto che la keyword della vicenda fosse “solidarietà”, mentre i termini più utilizzati sono stati l’opposto: derisione, condanna, scherno. Non m’interessa se la lista delle donne abusate è lunga o corta, se sono famose o sconosciute, quello che mi sconvolge è che da una parte ci sono persone che reputano l’azione meno grave perché taciuta per troppo tempo e dall’altra mi sconvolge che molte hanno taciuto per paura, non quella classica, quella che ti toglie la voglia di vivere perché ti fa sentire sbagliata e colpevole, no, molte hanno avuto paura di farsi rovinare la carriera. Ci siamo ammalate di femminismo meritocratico a nostro piacimento, a spot, un po’ in base a ciò che ci conviene, mentre io vorrei continuare ad essere ammalata di umanità, per me e per la vita degli altri, che non ho mai reputato un’ecografia da analizzare per trovare il bello o il brutto da infamare. La gente si trasforma in esercito della salvezza a piacimento quando si tratta di violenza sulle donne, se da un lato emergono commenti da Medioevo, dall’altro esistono ancora persone che hanno la decenza di non concentrarsi solo sul titolo delle cose.
Subire un abuso di qualsiasi entità non dovrebbe avere scadenza, non è un qualcosa che passa, il segno te lo porti addosso anche quando passa il livido e non esiste un metodo giusto per affrontare la situazione, esistono solo modi per sentire meno male, sia dentro che fuori. Subire un abuso non può e non deve essere giudicato grave o meno sulla base di giudizi da bar: “è sempre stata un tipo strano”, “avrà goduto durante e dopo per crearsi una vita di eccessi”, “finora ha fatto la puttana, ora non gli conviene più e si è trasformata in moralista”.
Ne ho parlato sul mio profilo di Facebook, dove quotidianamente metto in piazza i miei pensieri e perché amo il dialogo e mi piace ascoltare, scrivere opinioni senza incarnare la verità assoluta, ma c’è una cosa alla quale non mi abituerò mai: chi riesce a spostare l’attenzione di colpevolezza dal carnefice alla vittima, nei fatti di cronaca e non solo.
Esempi come questo sono da incoraggiamento a chi, purtroppo, non riesce a denunciare, non riesce ad affrontare il ‘dopo’ di qualcosa che ti è stato tolto con la forza da chi amavi, da chi ti fidavi o da chi semplicemente fa della prevaricazione sugli altri uno stile di vita.
Con questo argomento si sta delineando uno scambio di ruoli: Weinstein è colpevole per il mondo intero, tranne in Italia, dove non viene nemmeno condannato pubblicamente verbalmente per quanto fatto, ma siamo pronti a concentrarci sulla condanna di tempi, modi, cognomi di chi ha subito. La violenza andrebbe condannata subito, in quel mare di condizionale che trova appiglio anche per colpa di chi sa solo puntare il dito. É un bene che prima o poi, quel coraggio di raccontare esca, per se stessi, per aiutare altre vittime nella stessa situazione.
Mi spiace che quelli che in questi giorni hanno dispensato certezze assolute sono state, in quantità maggiore, proprio donne, ma si sa che spesso la 1° violenza commessa è quella di non saper mostrare solidarietà allo stesso sesso.
“Viviamo in un Paese in cui non servono nemmeno i maschi per essere maschilisti”, Michela Murgia ha fatto centro.