Effetto coronavirus: laviamo il valore delle persone

Sono lo zero dopo la virgola prima della percentuale e non sono sola, ma non conto niente, se non a dimostrare che anche questa volta sono inutile.

Non avrei immaginato tutto questo. La situazione surreale, sospesa come la trama inconclusa di un film catastrofista che bocceremmo dopo la prima mezz’ora. La paura come collante, protagonista, scenografia, l’elemento unico per un copione senza senso che ci troviamo a recitare svogliatamente. Vivo in una città della zona gialla, una volta mi bastava dire pianura Padana e mi trovo a vivere un’altra settimana di pantano sociale a fare lo slalom tra ordinanze, decreti ministeriali e tutorial assurdi su una pratica igienica banale come lavarsi le mani.
Non mi rimane che far funzionare il cervello, carburando pensieri concreti: razionalità e sfinimento in un gioco al massacro. Un’altra settimana seduta a guardare fuori da questa finestra immaginaria che è il momento coronavirus, in cui mi sento una banana da discount, sola col mio bollino in fronte a non essere felice di sentirmi una privilegiata di quella casistica che potrebbe non farcela tra starnuti e catarro volante, gridando “specchio riflesso” a chi tossisce più del dovuto. Un’altro giro di boa tra nuove parole che ora utilizziamo come grandi classici: il droplet per la distanza di sicurezza, la quarantena come unità temporale. Un’altra settimana in cui quelli come me sono dati per spacciati, da un lato, e esempi vita dall’altro perché di fatto, abituati a vivere nel (e al) limite.

La quarantena, il contagio, le percentuali, la gente che sottovaluta o la gente che suona l’allarme per un colpo di tosse, l’odore dell’Amuchina che ormai mi fa vomitare e ho le mani come la nonna di Cappuccetto rosso. Il pensiero costante di avere un piano d’attacco se succedesse l’isolamento: come funzionerebbe con me che sono in carrozzina? Chi mi assiste h 24 senza pensare alla situazione grave, ma solo nella routine? Pesco dal mazzo o scelgo un genitore a caso come milite ignoto?
La comunicazione e l’informazione di queste ultime settimane non sa tener testa all’epidemia e dilaga tra fake news e allarmismi. Divide, frammenta il sapere e a raccogliere i cocci è l’opinione pubblica che si trasforma in un branco di menefreghisti, esperti virologi o agenti di pompe funebri.

Mi sto ammalando (ma i polmoni non sono le vittime):
– di infodemia, la ricerca spasmodica di notizie su un determinato argomento, notizie che dicono tutto e il contrario di tutto, un bombardamento mediatico che non lascia più spazio alla razionalità;
– di solitudine perché divento sospettosa quando qualcuno mi sta troppo addosso;
– perché, in questo momento, non ho più la routine della mia vita e sto imparando lo stretto rapporto con la paura.

PAROLE CONTAGIOSE

La paura in questi giorni la percepiscono molti, come una presenza costante che scandisce le giornate, il rintocco perfetto di ciò che ci limita. Il silenzio e il vuoto ne fanno il contorno: nelle piazze, al supermercato, nelle stazioni o nei parcheggi desolati, ma soprattutto negli occhi della gente che non puoi più toccare e lo sguardo è l’unico mezzo per “accarezzare”. Ci vogliono ligi alle regole, ne va del buon senso e della nostra vita, per una volta potremmo dimostrarci lungimiranti nel rispetto. “Dovremmo”, prima di trasformarlo in un obbligo categorico.

E allora aspetto che passi la piena, seduta come sempre a fare i conti con le mie paure che ho scoperto avere volti differenti. Sorseggio fiori di Bach e vedo in questa distanza un esercizio emotivo per capire chi o cosa mi manca davvero.
Provo a spostare la virgola, mi è sempre piaciuto fare “Giovanna D’Arco”, ma tanto una come me, lo dicono quelli importanti, è destinata a perdere la corona, ma mi troverete sempre qui. A distanza di sicurezza.

credits ph: Pinterest

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