L’abilismo in punta di lingua

Il linguaggio che diffondiamo ci rappresenta nel pensiero e nella modalità di comunicazione. Ne parlo molto sui miei social, specialmente su instagram attraverso le stories, dell’importanza di scegliere le parole giuste per generare empatia, ironia o anche solo per rivolgersi ad una massa. Sono un po’ preoccupata dalla facilità con cui ancora si utilizzano parole offensive che hanno a che fare col mondo della disabilità, per denigrare, per bullizzare. Vorrei lasciare nero su bianco una modalità di comunicazione corretta, o comunque migliore, da rendere quotidiana nei nostri rapporti interpersonali: raccolgo tutte le parole o le frasi da evitare quando trattiamo il tema della disabilità, una sorta di “manifesto” sulla terminologia corretta della disabilità, perché di errori linguistici sul tema se ne continuano a fare troppi.

L’abilismo descrive le persone definendole unicamente per la loro disabilità, ne attribuisce a priori certe caratteristiche, imprigionandole in stereotipi in cui risultano diverse e irrevocabilmente inferiori.

come definito da Sofia Righetti

È facile classificare il mondo della disabilità con epiteti ormai di uso comune scorretti e irrispettosi. Come si migliora? conoscendo il tema, prestando attenzione e ripetendosi come mantra “e se queste parole le dicessero a me?”, in pochi poi farebbero i menefreghisti.

Le parole sono importanti

Non utilizzare mai la disabilità come un sostantivo, ma come aggettivo perché la disabilità non definisce un individuo, è un accessorio, una sfumatura, una condizione (a volte anche temporanea). È meglio scegliere una comunicazione che porti la persona al 1° posto, quindi deve essere accompagnato il termine “disabilità” più la preposizione con, quindi persona con disabilità…motoria, sensoriale, intellettiva.
La persona viene sempre prima della sua condizione. Non siamo portatori d’handicap o “affetti da…”, perché non siamo bauli o portantini carichi di zavorre e non siamo la nostra malattia, viviamo solo in una determinata condizione. Vivere una disabilità non può essere definita una sofferenza full time a prescindere solo dall’etichetta, infatti tale modalità va a confermare un cliché che può solo distruggere quanto si sta facendo per divulgare un messaggio migliore sulla tematica: essere umani non per forza migliori, non per forza eroi, ma con caratteri e tratti distintivi, pregi e difetti ben definiti, come chiunque altro.

Sensibilizzare non sempre risolve l’abilismo

Trattare il tema è tutta questione di approccio e di scelta di linguaggio e la nostra lingua italiana ci viene in soccorso con una moltitudine di sinonimi: usiamoli!
Non può essere scusato l’utilizzo della disabilità con finalità offensiva, di etichettare per distinguere una persona per un difetto o una mancanza.

Ma non mi fermo qui nell’analisi, perché spesso siamo noi stessi ad essere abilisti promuovendo una comunicazione che mira a rimarcare diversità e tabù. Faccio parte di un tavolo tecnico territoriale che tocca più associazioni e più disabilità: siamo come il minestrone della Valle degli orti ma ci scanniamo come Bud Spencer in un bar di periferia. Mi ritrovo spesso a disquisire con prolissi pipponi su quanto dobbiamo migliorare nel diffondere cultura inclusiva, senza dover accettare progetti e diffusioni solo perché vediamo il nostro simbolo carrozzato. Penso a quella campagna di sensibilizzazione contro il parcheggio selvaggio negli stalli arancioni (o gialli) riservati alle persone con disabilità. Ogni volta che una persona applaude a quella campagna, vorrei incendiare quel cartello e togliere il pc a chi li ha ideati, perché:
– quella campagna non genera cultura, non migliora e non cogliere l’obiettivo di evitare soste non idonee, non è empatica;
– usa parole vecchie, negative e che fanno ottenere solo l’effetto dei rompi coglioni (perché per chi non lo sapesse, per i più siamo gli handicappati, ma per il resto del mondo siamo i rompi coglioni).
“Vuoi il mio posto? prenditi il mio handicap!”, corre su e giù per tutta Italia, forse cambiando solo i colori dei cartelli e le associazioni che lo sponsorizzano. Volete dirmi che questo banale gioco irreale di parole serve davvero a risolvere la questione? Più che augurare strane cose che non contano niente, mi aspetto ed esigo più controlli dalla polizia locale, soprattutto quando vengono chiamati per avere supporto.

L’ironia non è una scusa

Proprio pochi giorni fa, una ragazza che mi segue mi ha fatto conoscere una tiktoker che aveva pubblicato un reel relativo ad un trend “Dimmi che sei un nano senza dirmi che sei un nano”, ironizzando sull’altezza. Il nanismo è equiparato all’altezza ridotta come fosse un complimento, ma ci stiamo dimenticando che, in verità, è una disabilità, quindi di fatto, si sta scherzando su un qualcosa che per molte persone non è un gioco e tantomeno qualcosa su cui ironizzare. Purtroppo chi comunica in modo errato non sempre capisce cosa ha generato e che le alternative linguistiche sono bellissime da utilizzare o si potrebbe proprio troncare sul nascere queste cavolate senza senso, quindi si generano dialoghi al limite dell’assurdo, cercando di arrampicarsi su vetri e cadendo sempre più in basso. Alcune volte mi capita di scuotere la testa e passare oltre, altre volte (come in questo caso) passo allo step successivo: ho segnalato all’agenzia che segue questa persona, perché credo che portare tutto sul piano paritario dell’importanza possa insegnare meglio: per me sono importanti le parole, per lei forse è importante il suo lavoro.

Cosa dire e cosa non dire nel linguaggio inclusivo?

Andiamo nel concreto di questo decalogo. Non utilizzare il termine “diverso” declinato nelle varie sfumature: diversamente abile o diverse abilità. Mettere la negazione “non” davanti a qualcosa è sbagliato, come non udente, non deambulante, etc. non è questione di politicamente corretto, ma va a rafforzare la diversità rispetto ad altri. Non è una gara tra chi può e chi non può o tra chi ha e chi non ha.
Non è questione che non si può più dire niente, pretendere il politicamente corretto non è un regime da bannare, nemmeno esiste questa egemonia purtroppo, ma come evolvono le masse, è giusto mutare anche il linguaggio. Non è giusto travestire le cose da falsa satira, perché dovrebbero ribaltarsi i ruoli: noi dovremmo ridicolizzare le “persone normali” (altra distinzione che odio). Includerci nella quotidianità, nella “normalità” non deve avere il prezzo così alto da pagare dell’estromettere il rispetto sempre a discapito nostro. Il filosofo Antifonte di Ramnunte, nel IV secolo a.c., utilizzava il motto “Se cambia il linguaggio, cambia il pensiero” e aveva ragione.

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