“Tanto tu sei disabile” non è un nuovo percorso di studi, una nuova professione o una carriera assicurata.
Lo pubblico oggi che è la Giornata internazionale sulla disabilità perché voglio darvi una 2° chiave di lettura di un giorno che merita di essere uguale agli altri 364.
Ti ascoltano, ti studiano, ti guardano, a volte con sospetto, altre con ammirazione, altre ancora spruzzando acido dalla bocca sperando di beccarti in fronte. Sono orgogliosa di comunicare che ho una nuova skills da aggiungere al mio cv: faccio parte di una nicchia, l’ho capito.
A far parte di un gruppo di persone ci sono pregi e rischi che è giusto conoscere e mettere sotto gli occhi di tutti, giusto per chiarire scorciatoie inesistenti, se non quella di raggiungere in fretta il bagno, ma si chiama necessità corporale. Chiamiamola nicchia che fa più élite radical chic o recinto da zoo per chi ama l’arte per associazione d’immagine.
Potremmo trovare sinonimi all’infinito, giocando con le parole, mentre si gioca con le vite delle persone attaccandogli un prezzo in fronte. Chi lo decide questo prezzo? Io, tu che leggi, la società che ci circonda, altri gruppi con altri nomi. Ed è un prezzo ben in vista che puoi pagare in molti modi, sorridendo, piangendo, incazzandoti, barattandolo in cambio di altro, ma non puoi esimerti dal pagarlo. Che poi potrei scrivere pagine e pagine sul perché esistono queste nicchie, che sono più recinti dove la gente ti guarda. E dipende anche da noi cosa vogliamo far vedere.
Sì mostrarsi, ma qui la nicchia non c’entra nulla, dobbiamo solo capire A volte ti guarda vedendo il bello, a volte ti guarda capendo cosa gli fa comodo, spesso niente, anzi ha pure coraggio di dire cose senza senso, pur di emettere suono.
Sono una donna, mi piace dare la colpa agli ormoni quando c’è qualcosa che non quadra, quando il mio carattere invece che viaggiare in corsia, prende lo sterrato senza conoscere destinazione e oggi l’io Valentina è disperso in una lunga gita fuori porta.
La mia nicchia/tana/tag si chiama disabilità e mannaggia a me (sì voglio essere squalificata da questo Grande Fratello reale) che ne vado così orgogliosa (o orgogliona, cit.) perché non potendo nascondere il nemico tanto vale “farselo”, stringerci una relazione morbosa e sposarselo finché morte non ci separi. E così ne parlo come fosse un amico immaginario, lo porto in giro con me, gli presento il mio mondo, lo rendo partecipe delle mie scelte, fino a quando la mia disabilità non diventa me. Io non sono la mia disabilità, non sono solo questo. Non fingo di essere un luminare della spinta su ruote, non sono quella socialmente utile perché “tu ci vivi”, non fate della mia disabilità una macchia dalla quale vorrei pulirmi, ma nemmeno un pregio da sventolare. Ci sono mille modi per affrontare il tema, ma non prendetemi mai ad esempio come essere speciale seduto. Faccio parte della nicchia, ma non sono la nicchia stessa: la mia esistenza non è fatta solo di ruote, ci viaggi solo sopra. Quando mi cercate per propormi dei progetti che hanno questo tema sono la persona più felice di questo mondo perché non sono qui per rinnegare un’appartenenza, perché è giusto parlare di ciò che la maggioranza delle persone non conosce o ignora ed è giusto farlo con i termini giusti diffondendo punti di vista di chi conosce meglio la situazione, ma uscite dalla gabbia di associarmi esclusivamente alla mia “4ruote”. Mi sembra di essere Gianni e Pinotto, in coppia una bomba, presi singolarmente la morte. Altroché Jo Squillo e Sabrina Salerno, mi toccherà cantare che “oltre alla mia carrozzina c’è di più”.
Ho partecipato a tanti progetti sociali, davvero molto importanti per i contenuti, mettendoci la faccia e anche altro, ma le cose si evolvono, i messaggi cambiano (non si rinnegano), le idee si chiudono per lasciare spazio ad altro. E non è questione di cattiveria o di selezione, si chiama evoluzione, crescita personale. Seduta su una carrozzina c’è sempre una persona con un proprio bagaglio culturale, un carico emotivo e un’immagine da gestire, agitando tutto in un mixer quotidiano salta fuori quello che siamo. Fare la riverenza al passato è rendersi schiavi di ciò che siamo stati e pigri nei confronti del futuro.
Ho imparato che uscire dagli schemi usando logica e intelligenza permette una comunicazione più efficace e meno “pilotata” su cliché. Già mi faccio spingere e guidare, se devo anche creare contenuti monotematici, fate tutto voi che io mi riposo davvero. Quante volte mi sono sentita dire “dovresti ringraziare questo o questa per quello che sei ora”, non lo faccio quasi mai, né per non riconoscenza, né per spocchiosità, non lo faccio perché i grazie si dimostrano e non si chiedono, non lo faccio perché contrariamente a molti, cerco di giocare in team so di aver giocato ad armi pari nel dare e nell’avere. Non vale la pretesa a senso unico e purtroppo questa parvenza di rivendicazione è quello che mi circonda quasi sempre. Accade perché ci si limita a guardare l’influenza e l’impatto generato, non ascoltando il contenuto.
Purtroppo di lunedì il post un po’ polemico è il minimo sindacale.
4 risposte
Bellissimo! È la prima volta che ti leggo ma empatizzo molto con quello che hai scritto… Ho sofferto di una condizione per un periodo, una sorta di disabilità temporanea, che era anche un ruolo, quello di una vittima. Da un lato ne vuoi parlare e ti serve farlo, dall’altro tu non sei la tua disabilità, tu sei tu e la disabilità ti sta accanto semmai, ma non è te. Grazie per averlo ricordato. 🙂
Grazie!!!
Sono felice che le mie parole abbiano fatto centro. Dobbiamo ricordarlo tutti, part-time o full time nella condizione di disabile.
Ciao Valentina,grazie per le tue parole che sono sempre fonte d’ispirazione e insegnamento,ho un progetto che mi piacerebbe poter fartelo conoscere e spero di comunicare con te in direct o via mail,dimmi come preferisci,e ovviamente se hai tempo e voglia di leggerlo(sarò breve giuro)baci e auguri per tutto♥️
Certo Paola, mandami una mail a pepitosa.blog@gmail.com
Ti aspetto!